Litio, le pile da Nobel da recuperare correttamente

Un premio Nobel legato all’attualità quello assegnato a John B Goodenough, M Stanley Whittingham e Akira Yoshino per la chimica. Perché oggi non c’è tema più attuale delle batterie al litio. Le si trovano praticamente ovunque; hanno condizionato – e condizionano – ogni giorno della nostra vita, permettendoci di utilizzare uno smartphone, un laptop e persino muoverci  in auto o in bici. E, visto che sono così diffuse, necessitano di una particolare attenzione quando arrivano a fine vita: non possono essere genericamente buttate nell’indifferenziato, ma devono essere opportunamente separate – sia dall’apparecchiatura, sia nel conferimento – affinché possano essere avviate ad un percorso corretto di riciclo e smaltimento. Anche perché le pile al litio possono rivelarsi non solamente molto inquinanti ma anche pericolose (possono esplodere in caso di surriscaldamento). Quindi dove portarle? All’isola ecologica comunale oppure cercare nei grandi centri commerciali i raccoglitori appositi che la GDO deve mettere a disposizione dei propri clienti.

Di fatto però, le pile al litio hanno dato un grande impulso al “mondo ricaricabile”, contrastando la vecchia abitudine dell’usa e getta quanto si parla di batterie. Goodenough, Whittingham e Yoshino: tutti e tre  hanno contribuito a una parte di quella rivoluzione che ha portato a modificare le nostre abitudini. Whittingham ha sviluppato le prime batterie al litio; Goodenough e Yoshino hanno aiutato con il loro lavoro ad aumentarne la potenza e la sicurezza, trasformando quello che era un iniziale prototipo in un prodotto commerciale oggi diffusissimo.

La storia delle batterie al litio iniziò negli anni Settanta quando, in piena crisi petrolifera e alla ricerca di modelli energetici alternativi, Whittingham si mise a studiare delle possibili soluzioni al problema dell’immagazzinamento dell’energia all’interno di batterie ricaricabili. Usò come anodo della “sua” batteria il litio metallico e come catodo un materiale fatto di disolfuro di titanio, una sostanza che al suo interno può ospitare ioni di litio: gli ioni litio si muovevano da una parte all’altra e potevano essere riportati indietro quando la batteria veniva rimessa in carica. Una bella soluzione, se non fosse per la cautela che bisognava usare: il litio metallico era troppo esplosivo.

Messo da parte il progetto (anche per la fine della crisi), fu Goodenough a riprendere l’idea negli anni Ottanta. Sostituì il disolfuro di titanio con l’ossido di cobalto, ottenendo una batteria da 4 volt, il doppio di quella di Whittingham. Con Yoshino, il coke petrolifero (un sottoprodotto della lavorazione del petrolio) venne usato per alloggiare gli ioni di litio. Ne risultò un prodotto stabile, leggero e sicuro, pronto a conquistare il mercato.